Agonismi leopardiani

  • 1 marzo 2005
La critica del pieno e soprattutto del secondo Novecento è venuta sempre più nitidamente riconoscendo, nella figura altissima di Giacomo Leopardi, una pronunciata e costante tensione agonistica: e basterà qui appena accennare a uno dei suoi punti di arrivo, o di più intensa manifestazione, ossia lo scontro con la natura matrigna. 

C'è però, in genere non considerato, anche un agonismo più specificamente letterario che attraversa l'intera « carriera » leopardiana e di cui la presente relazione propone una sorta di assaggio. Si parte, per una volta, dal principio, cioè dal tragediografo ragazzino e dal suo rapporto con il teatro paterno; si continua poi con il momento decisivo e ben più consapevole della «conversione letteraria», in cui ad esempio il giovane traduttore si misura con chi l'ha preceduto in quell'esercizio ma anche con gli stessi originali, o in cui l'apprendista poeta (ma quanto già avanti nell'arte) incrocia la lama con un celebre esponente delle avversate letterature settentrionali (si pensa al « duello », tutto cartaceo, con Lord Byron dentro le terzine dell'Appressamento della morte). Neppure i grandi italiani, per quanto omaggiati, sfuggono al tenace agonismo del Recanatese: e ciò si dimostrerà affrontando in modo ampio e articolato il nodo complesso dei rapporti letterari che, all'altezza della composizione di All'Italia, Giacomo intesse con il principe vivente e regnante della letteratura del tempo, Vincenzo Monti, il quale (si ricorderà) è anche il dedicatario delle due prime canzoni leopardiane.